La sindrome dell’attimo fuggente – Convenzioni sociali e disobbedienza 2.0

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Qualche giorno fa, i social hanno postato e ri-postato l’accorata lettera di un padre rivolta agli insegnanti del figlio, nella quale esso comunica che il ragazzo non ha svolto i compiti delle vacanze, poiché impegnato in attività ludiche e didattiche (giri in bicicletta, costruire una scrivania, fare programmazione elettronica) con il padre.
Tale lettera ha suscitato dibattito non solo per ciò che concerne il contenuto (i compiti delle vacanze servono ancora? Sono in linea con le modalità di insegnamento dei paesi più all’avanguardia? Come li vivono gli alunni con disturbi di apprendimento e le loro famiglie?), ma anche per le modalità con le quali la lettera è stata scritta, diffusa e consegnata.
Tali modalità si riconducono ad un atteggiamento specifico, che potremmo definire “la sindrome dell’attimo fuggente”.
Non me ne voglia il compianto e grandioso Robin Williams..ma il film mi ha sempre fatto innervosire.

La storia, arcinota, è quella del professor Keating, insegnante di lettere ‘alternativo’, che viene assegnato alla classe maschile di un college ed esorta gli studenti a guardare le cose da altre angolazioni, ad osare, a cercare di raggiungere i propri sogni ed obiettivi.

Fino a qui, tutto bellissimo e poetico.

Così come poetico è l’intento del papà che ha scritto la lettera, di trascorrere tre mesi spensierati in compagnia del proprio figlio.
MA? C’è un ma. C’è la realtà, ci sono le istituzioni, ci sono dei limiti, ci sono le conseguenze a breve e a lungo termine delle proprie azioni, ed il riflesso di queste su chi ci circonda.
Tutto ciò inoltre, è attualmente amplificato dall’epoca 2.0, un’epoca nella quale chiunque ha libertà di parola, può scrivere e diffondere il suo pensiero, qualunque esso sia, un’epoca nella quale in un attimo ci si trasforma in critici cinematografici, allenatori calcistici, avvocati, coroner, criminologi, medici, insegnanti ed anche, ahimè, psicologi.
Ma quali possono essere gli effetti avversi di questa improvvisazione?
Il Professor Keating, nel film, sbaglia. Lo dico senza tema di smentita. E’ folle o quantomeno ingenuo, smuovere la mente di ragazzi in formazione, senza preoccuparsi delle conseguenze, della realtà.
E’ mandare i ragazzi completamente allo sbaraglio, metterli su una barchetta in un mare in tempesta, senza essersi accertati che sappiano timonarla, o almeno nuotare.
Nel film, infatti, un ragazzo si suicida poiché il padre rifiuta di acconsentire alle sue velleità artistiche; un altro viene espulso dalla scuola, reo di non voler acconsentire a firmare la lettera che incolperà Keating.
Il Professore stesso viene espulso, e paga le conseguenze della sua superficialità.
Lui, almeno, era mosso da buone intenzioni, da un vero affetto verso i ragazzi e dalla volontà di aiutarli a realizzarsi, sebbene non corredato da un adeguato esame del piano di realtà.

Ma cosa succede quando questo meccanismo viene portato all’estremo? Cosa succede quando “pensare con la propria testa” diventa l’equivalente di “fare ciò che mi pare perché lo ritengo giusto”?
‘Oggi mio figlio non fa i compiti perché secondo me sono inutili’. ‘Non pago le tasse perché sono troppe, e in tasca non mi rimane niente’. ‘Perché dovrei pagare il canone TV se nemmeno la guardo?’ ‘Il biglietto del pullman non lo pago perché i mezzi non passano mai, e poi sono sempre troppo pieni’.

Qualcuna di queste frasi vi suona familiare?
Che deriva può prendere tutto ciò?

Allora io dico, caro professor Keating, caro papà che ha scritto quella lettera: non è questa, la via. Sarebbe bellissimo e facile, se per cambiare davvero prospettiva, bastasse salire su un banco..ma non è così.
Per questo gli interventi degli psicofuffari non solo non funzionano, ma sono dannosi, anche se corredati da buone intenzioni…perché il banco, bisogna costruirselo, ed è ben più dura che costruire una scrivania con assi di legno, chiodi e martello.
Costruirselo vuol dire che non basta capire qual è la difesa e cercare semplicemente di abbatterla con la logica del “carpe diem” (o del qui ed ora, come dicono alcuni), perché la difesa ha un suo senso, ha un suo percorso, ha un prima e un dopo, va rispettata e modificata pezzo per pezzo, integrandone le modifiche all’interno della nostra vita.
Costruirselo vuol dire mediare, dialogare con le istituzioni, andare a riunioni, perdere tempo, parlare con le persone, cooptarle, lavorare per ciò in cui si crede..e spesso nemmeno raccoglierne i frutti, ma esserne comunque fieri, perché li raccoglierà qualcuno dopo di noi.

Inventando un altro finale, il professor Keating avrebbe potuto impegnarsi insieme ai ragazzi per discutere col Preside di modifiche graduali in seno alla scuola, o cercare di ambire lui stesso al ruolo di Preside, se desiderava cambiare alcune cose, anziché muoversi a sua insaputa, spingendo i ragazzi a voli pindarici destinati ad infrangersi non appena a contatto con la scottante realtà.
Il papà della lettera avrebbe potuto cercare di partecipare a gruppi, già esistenti peraltro, che aprono tavoli di confronto con insegnanti e dirigenti sui metodi scolastici e cercano di svecchiare il sistema, anziché insegnare a suo figlio che se qualcosa non piace, è possibile semplicemente eluderla.

Tornando alla metafora della barchetta, concludo riportando qui la strofa successiva della poesia che chiude il film:
O Capitano! Mio Capitano!”
“Il nostro viaggio tremendo è terminato,
la nave ha superato ogni ostacolo, l’ambìto premio è conquistato”,

e dico che auspico meno disobbedienti passivi e più adulti Capitani, in grado di guidare i ragazzi a comprendere che l’oceano bisogna conoscerlo, rispettarlo, e navigarlo onda per onda, bagnandosi, patendo il mal di mare, accettando anche di deviare a volte la rotta, se occorre, per poter arrivare in porto sani e salvi, e poter così a propria volta raccontare la via faticosamente percorsa, e condividerla a beneficio di altri.

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